2 febbraio 2017 - Allo Zen Hospice diciamo che non c'è vero servizio se non sono servite entrambe le persone. Quando lavoro davvero con qualcuno che sta morendo, lavoro anche su me stesso. Osservo la mente e mi rendo conto di come il cuore si apre e si chiude. Sono consapevole del mio stesso dolore e della paura di morire. In questo modo inizio a capire che la sofferenza dell'altra persona e anche la mia.
Al Centro Zen quando si insedia un nuovo abate si svolge una cerimonia ed è un rituale molto bello, che coinvolge l'intera comunità. Durante una delle ultime cerimonie, uno studente chiese: "Che cosa mi può insegnare la pratica spirituale nel servizio agli altri?" e, in tipico modo Zen, l'abate rispose: "Quali altri? Servi te stesso". Lo studente insistette: "Come faccio a sapere come servire me stesso?" e, naturalmente, l'abate rispose: "Prenditi cura degli altri".
Allo Zen Hospice, lavoriamo quotidianamente con persone che stanno per morire. A volte sono persone molto dure, che hanno vissuto per strada o ai margini della società, che non sopportano il loro senso di impotenza, che hanno perso ogni speranza. Ci sono altri che sono consumati dalla paura. Talvolta si girano verso il muro e si rinchiudono in se stessi, senza mai più tornare indietro. II buddismo non interessa assolutamente nulla alla maggior parte di loro. Persone di questo genere non si fidano facilmente e se voglio essere di qualche utilità dovrò essere estremamente chiaro e onesto circa la mia intenzione, in caso contrario non gli ci vorrà molto per indovinare la mia ipocrisia e il mio sentimentalismo. Molte di queste persone sbocciano ed è un grande dono stare insieme a loro. Sono capaci di incredibili riconciliazioni con le loro famiglie trovando la gentilezza e l'accettazione che hanno cercato durante tutta la loro vita. Può essere un'esperienza straordinaria.
Non faccio questo lavoro perché a volte ottengo un successo. Rincorrere tali ricompense conduce all'esaurimento e dunque alla manipolazione, perché continueremmo a cercare di creare le condizioni per ottenere i risultati attesi, invece di fronteggiare la situazione così
come è. Faccio questo lavoro perché lo amo e perché servo anche me stesso. Il prendersi cura degli altri crea sempre un beneficio reciproco. In questo processo noi iniziamo a capire che nel nutrire gli altri, ci prendiamo cura anche di noi stessi. Diventiamo quello che io chiamo: "compagni compassionevoli".
La parola compassione significa letteralmente: soffrire con gli altri, ed è quella congiunzione nel mezzo della definizione ‑ 'con' ‑ che è così importante. Implica intimità e deriva dal senso di appartenenza. Inoltre, un compagno è naturalmente uno che viaggia con un altro; quindi in questa relazione non c'è una guida, non c'è né guaritore né guarito. Come il maestro Zen Reb Anderson dice: "Noi stiamo semplicemente camminando insieme attraverso nascita e morte, tenendoci per mano". E questo è un approccio radicalmente differente dall'assistenza perché riconosce esplicitamente il dono che una persona morente può offrire a colui che l'assiste. Nello Zen, c'è una pratica chiamata dokusan, una sorta di colloquio con l'insegnante. Allo studente viene detto di aspettare fuori dalla e di concentrare tutta la propria attenzione sul momento presente. Egli non ha alcuna idea di ciò che lo aspetta dall'altra parte della porta, nessuna idea di ciò che il maestro potrà chiedergli. Quindi lo studente dovrà essere aperto, flessibile, ed avere la volontà di entrare libero da aspettative. Entrando nella stanza di un paziente morente è come fare dokusan.
Troppo spesso accade che nel prenderci cura non osserviamo veramente per vedere quel che serve, ma cerchiamo di confermare una identità. Chiamo questa "la malattia dell'aiutante", che ha un carattere molto più epidemico dell'AIDS o del cancro. Sto parlando dei vari modi che mettiamo in pratica per tenerci distaccati dalla sofferenza degli altri. Ci teniamo distanti con la pietà, la paura, il calore professionale, persino con dei gesti caritatevoli. L’attaccamento al ruolo dell'aiutante è molto vecchio per molti di noi, e se non stiamo veramente attenti, se non siamo consapevoli, questa identità imprigionerà sia noi che quelli che serviamo. Perché, se io farò l'aiutante, qualcun altro dovrà fare quello bisognoso di aiuto.
Una mia buona amica, Rachel Remen, autrice di "Kitchen Table Wisdom" (La saggezza del tavolo di cucina), ha scritto su questo tipo di aiuto e penso che sia una delle più belle descrizioni del servizio che io conosca. Parafrasandola, potremmo dire che servire non è la stessa cosa di aiutare.
Aiutare è basato sulla ineguaglianza, non è un rapporto tra uguali. Quando si aiuta, si usa la propria forza per aiutare qualcuno che ne ha meno. E’ un rapporto "uno-sopra, uno-sotto" e la gente sente questa disuguaglianza. Quando aiutiamo poi, a volte senza volerlo, prendiamo di più di quello che diamo, diminuendo così negli altri il senso del valore e della stima in loro stessi. Quando aiuto, sono molto consapevole della mia forza, anche se in realtà non serviamo solo con la forza; serviamo con tutti noi stessi e attingiamo a tutte le nostre esperienze. Le nostre ferite servono, i nostri limiti servono, anche le nostre ombre servono. La nostra interezza serve l'interezza dell'altro e l'interezza nella vita. Aiutare è come contrarre un debito. Quando aiuti qualcuno, questi ti deve qualcosa, mentre il servizio è reciproco. Quando aiuto ho un senso di soddisfazione, ma quando servo ho un senso di gratitudine.
Servire è anche diverso da aggiustare. Quando aggiustiamo, vediamo la persona come rotta. Aggiustare è un tipo di giudizio che ci separa dagli altri e crea distanza. Quindi fondamentalmente vediamo che aiutare, aggiustare e servire sono modi diversi di vedere la vita. Quando aiuti, vedi la vita come debole. Quando aggiusti, la vedi come rotta. Quando servi, vedi la vita come un intero e chi serve sa che si viene usati da qualcosa di più grande di se stessi.
Una sera Tom, uno dei volontari, si stava occupando di un paziente con l'AIDS. J.D. era ormai molto debole, tanto da far fatica a stare in piedi e aveva bisogno di aiuto per svestirsi e altre cose. Proprio quella sera, Tom stava aiutando J.D. a muoversi verso la comoda, quando le gambe di J.D. non ressero e lui cadde. Ci fu un caos tremendo. I pantaloni del pigiama di J.D. gli arrivarono alle anche, la comoda si capovolse. Un pasticcio terribile. J.D. stava bene, ma Tom era distrutto. Comunque Tom nervosamente si arrangiò e rimise J.D. sul letto e poi mi chiamò e disse: «Bisogna che rivediamo insieme le tecniche su come spostare qualcuno dal letto alla comoda". Ma io gli dissi: "Tom, fai semplicemente questo: la prossima volta che sposterai J.D., controlla come hai la pancia e vedi se è morbida". Lui replicò: «No, no, non la roba buddhista. Voglio sapere le procedure infermieristiche, come muovo il suo ginocchio." Ma io dissi: "Tom, controllati semplicemente la pancia e chiamami dopo".
Poco tempo dopo mi chiamò e disse: ''Frank, è stato sorprendente. Stavo spostando J.D. e la mia pancia era dura come una roccia. Mi sono reso conto che avevo timore e così mi sono fermato: ho respirato alcune volta, ho ammorbidito la pancia e la cosa che è successa dopo è che mi sono trovato J.D. nelle braccia come un'amante o un bambino. Non è stato per niente un problema".
Quando il cuore è aperto e la mente è calma, quando l'attenzione è totalmente nel momento presente, ecco che il mondo non è più diviso e sappiamo cosa fare. Se indaghiamo al cuore del servizio vediamo che c'è uno schema che si ripete: il senso di separatezza è il comun denominatore di tutte le abitudini che ci ostacolano nel nostro lavoro mentre l'esperienza della unità è sempre presente in ogni gesto o momento che sembrano andare nella direzione del servizio. Einstein ha parlato di questo e Sogyal Rinpoche lo cita nel suo "Libro tibetano del vivere e del morire": "Ogni essere umano fa parte di un insieme che noi chiamiamo Universo, una parte limitata nel tempo e nello spazio. L'uomo vive se stesso, i suoi pensieri e sentimenti come qualcosa di separato da tutto il resto, in una specie di illusione ottica della sua coscienza. L'illusione costituisce una specie di prigione che ci limita ai nostri desideri personali e all'affetto per le poche persone più vicine a noi. Il nostro compito deve essere quello di liberarci da questa prigione allargando il nostro cerchio di compassione fino ad abbracciare tutte le creature viventi e l'intera natura nella sua bellezza ".
Quando il cuore non è più diviso, tutto ciò che incontriamo diventa la nostra pratica ed ecco che allora il servizio è uno scambio sacro, proprio come inspirare ed espirare. Il sostegno fisico e spirituale che riceviamo nel mondo equivale all'inspirazione. Poi, poiché tutti abbiamo dei doni da offrire, una parte della nostra felicità nel mondo consiste nel restituire qualcosa e questo processo equivale all'espirazione. Non ostacoliamo quindi la saggezza e la compassione innate e permettiamo alla nostra innata capacità di vedere ciò di cui ha bisogno l'altro mettendoci al servizio sia dei morenti che dei vivi. Ci sono innumerevoli modi di esprimere la compassione attraverso il servizio: modi per servire il corpo, modi per servire il cuore e la mente e modi per servire lo spirito.
Il primo modo per esprimere la compassione è occuparci del corpo con il dono del toccare. Il contatto è la più antica forma di guarigione ed è uno dei bisogni basilari dell'essere umano. Una notte, mi ricordo di avere visto Ray avvicinare una sedia ai piedi del letto di ospedale di Mark e sistemarsi i piedi a terra. Tirò su la testa, leggermente stirandosi la schiena e così poté sedere completamente fermo. C'erano altri quattro visitatori che chiacchieravano riempiendo la stanza con l'intenzione di tirare su il morale di Mark, il quale, dopo aver combattuto l'AIDS per anni, ora era fragile come un uccellino. L'intenzione era buona, ma Mark sembrava annegare in mezzo a tutti quegli stimoli. Ray annuì a Mark con un leggero sorriso ed il gesto fu qualcosa a metà tra: "Mi fa piacere vederti ancora" e un inchino di rispetto.
Esprimeva attenzione e chiedeva il permesso di toccare. Le mani di Ray si fecero strada sotto le lenzuola di Mark fino ai piedi. Non potevo vedere alcun movimento e se pure c'era, doveva essere molto delicato. Non so se stesse premendo su alcuni punti speciali, ma sicuramente non c'erano misteri: ciò che importava era il profondo contatto stabilito attraverso il tatto, due uomini che entravano in un rifugio silenzioso insieme. Per mezz'ora Ray ascoltò, rassicurando, esplorando, rispondendo a Mark, senza che una singola parola fosse pronunciata. Il chiacchiericcio nella stanza ancora durava, ma ora Mark stava galleggiando, invece di annegare. Quando il massaggio ai piedi fini, Ray tolse la sua mano piano e con attenzione, si sedette di nuovo sulla sedia stando fermo. Allora Mark gli mandò un bacio, poi chiuse gli occhi e affondò nel cuscino a riposare.
La gente viene toccata continuamente negli ospedali: si viene girati nel letto, viene preso il polso, prelevato il sangue. Le infermiere e i dottori fanno iniezioni, posizionano tubicini e mettono le flebo, fanno tutti i test possibili. Tutto questo è toccare, ma quante volte, mi chiedo, questo toccare è vissuto come curativo? I morenti sono estremamente vulnerabili. Si sentono fisicamente deboli, emotivamente non protetti, soli, a volte molto confusi. Se sono in ospedale, probabilmente è molto dura per loro: può essere vissuto come un luogo poco familiare e con un eccesso di stimoli. Il dolore poi è quasi universale. Il corpo non funziona bene e a causa di ciò possono trovarsi a dipendere dagli altri. E questo può far nascere la sensazione di essere impotenti. A completare il quadro, si trovano a dover fare i conti anche con i tabù sociali sulla loro malattia e su come è cambiato il loro corpo. Alcuni mi hanno parlato di una sensazione di tradimento da parte del corpo, mi hanno detto di sentirsi detestabili e intoccabili.
Il toccare inizia nel momento in cui si entra nella stanza. Prima tocchiamo con gli occhi, quando osserviamo l'ambiente per stabilire un contatto diretto con la persona a letto. Questo atto può esprimere la nostra presenza o manifestare il nostro disagio. Anche l'ascolto è un modo per toccare: può essere ricettivo, aperto, incoraggiante oppure selettivo e guidato dalle aspettative. La nostra voce tocca. Possiamo parlare lentamente e amabilmente, consapevoli del tono della voce per esprimere cura e conforto. Oppure può essere brusco e affrettato, a significare che abbiamo cose più importanti da seguire altrove. Non è necessario fare un corso di massaggio per stabilire un contatto amorevole con un altro essere umano; basta attingere alla nostra innata tenerezza. Non è la tecnica che conta, nemmeno dove mettiamo le mani. E’ la qualità del cuore con la quale tocchiamo e la volontà di essere veramente presenti.
Mia nonna faceva dei meravigliosi massaggi alla testa. Le sue mani erano piene di gentilezza. Mi dava la sensazione che avesse tutto il tempo di questa terra e che non ci fosse nulla più importante di me. Tutti abbiamo bisogno di toccare ed essere toccati e quelli che stanno morendo non sono un'eccezione. Certo, bisogna andarci piano all'inizio, procedendo con calma e rimanendo ricettivi, accogliendo anche la reazione che si ottiene mentre lo si fa. Chiaro che c'è un rischio nel fare questo. Possiamo sentirci a disagio o essere persino rifiutati. Ma qual è l'alternativa a non toccare? La solitudine che regna nelle case di cura del nostro paese è una conseguenza di questa strategia.
Nell'offrire delle cure, esistono infinite possibilità per un toccare che esprima compassione e rassicurazione, oltre al valore del rapporto con la persona malata. Non ci vuole più tempo. Apporre gentilmente la mano sul petto di una persona tesa con problemi di respirazione, può aprire una opportunità di calma. Quando prendiamo il polso dobbiamo stare lì per almeno 30 secondi. Perché non usare il tempo per stabilire un contatto umano onesto? Girare qualcuno nel letto, può darci l'opportunità di strofinare la schiena e applicare una lozione. Una pezza fredda sulla fronte di qualcuno che sta sudando può essere un gesto di gentilezza che può veramente aiutare. A volte tenere la mano può bastare. In fin dei conti, è la consapevolezza che fa guarire. Il toccare è solo lo strumento. Se portiamo la consapevolezza al momento del contatto, qualsiasi forma di tatto può trasformare ed ognuno di noi è capace di stabilire un contatto simile.
Il secondo modo per esprimere compassione è prestare attenzione al cuore e alla mente attraverso il dono dell'ascolto. Spesso penso alla pratica di meditazione come un modo per imparare ad ascoltarci molto intimamente. Diciamo che in meditazione coltiviamo la mente che ascolta, come potremo dire il cuore che ascolta. Penso che questo tipo di pratica ci prepari bene per stare con persone che hanno veramente bisogno di essere ascoltate.
Steve stava vivendo pienamente gli ultimi giorni della sua vita. Aveva combattuto l'AIDS per circa 10 anni e a quel tempo stava rendendosi conto delle sue energie limitate. Però, nonostante le condizioni di estrema debolezza e inabilità, trasudava amore, offrendolo liberamente a chiunque entrasse nella sua stanza. Anche Rick aveva l'AIDS e viveva nell'Hospice. Un colpo gli aveva paralizzato la parte destra e l'afasia gli rendeva la parola confusa e difficoltosa e questo lo faceva sentire isolato e non compreso. Una parte di Rick anelava che qualcuno potesse capire cosa stava attraversando. Dissi a Rick che Steven era vicino alla fine della sua vita e così Rick decise di andare a dargli il suo ultimo saluto. Rimasi a guardare un momento mentre Rick entrava e si sedeva sul bordo del letto e poi per circa 20 minuti tutti e due rimasero in un profondo scambio silenzioso. Non venne pronunciata nessuna parola. I loro occhi non si lasciarono per neanche un attimo e c'era una straordinaria intimità. Alla fine, riconoscendo la qualità della presenza che avevano condiviso, Steven disse semplicemente: "Grazie, è stato meraviglioso" e Rick concordò annuendo. Poi si abbracciarono e Rick ritornò in camera sua. Ho avuto l'impressione che molte delle cose che Rick aveva da dire, siano state ascoltate quel pomeriggio.
L'ascolto è tutto fatto di dare. Guarisce attraverso la forza della generosità. Un dono a mani aperte che non richiede nulla in cambio. Non riesco ad immaginare un dono più prezioso per qualcuno che sta morendo. Per ascoltare viene richiesto di diventare vuoti, disponibili a ricevere, senza aspettative o giudizi, a essere sorpresi. Un buon ascolto richiede sia l'attenzione rivolta verso l'altra persona sia verso la nostra vita interiore. E’ necessario porre la massima attenzione alle nostre sensazioni, sentimenti e intuizioni. Perché è questo ciò che ci permette di risuonare con un'altra persona.
Lo psicologo Carl Rogers diede una magnifica descrizione dell'empatia, dicendo: "Empatia significa entrare nel campo percettivo privato di un'altra persona sentendosi pienamente a casa propria. Significa vivere temporaneamente la sua vita e muoversi dentro delicatamente, senza giudizi. Comunicare ciò che senti nel suo mondo man mano che guardi con occhi freschi e senza paura. Significa controllare spesso con l'altro l'accuratezza del tuo sentire e farsi guidare dalle reazioni che ti tornano indietro. Stare con qualcuno in questo modo significa che devi lasciare da parte le tue visioni e i valori che valgono per te, in modo da entrare nel mondo dell'altro libero da pregiudizi. In un certo senso questo significa che lasci da parte te stesso e questo può essere fatto solo da una persona che si sente sicura di se stesso e non teme di perdersi in ciò che può diventare il mondo strano e bizzarro di un altro, perché sa che potrà facilmente ritornare al suo mondo qualora lo desideri".
Non è bello: "Muoversi nel suo mondo, delicatamente, senza giudizio, guardando con occhi freschi e senza paura"? Riuscite a immaginare che cosa si prova ad avere qualcuno che ti ascolta in questo modo? L'ascolto empatico richiede la nostra completa presenza. Ciò significa che i nostri corpi e le nostre menti devono entrare nella stanza allo stesso tempo. Può sembrare ovvio, ma non si verifica sempre. Troppo spesso lasciamo la mente sull'ultima attività che stavamo facendo oppure entriamo nella stanza così occupati dalle nostre idee, aspettative e immaginazioni da non lasciare spazio a nient'altro.
Quando ti siedi di fianco al letto, fai un profondo respiro. Lascia andare le attività della giornata e le tue aspettative. Arriva lì, vedi cosa senti. Semplicemente vivi. Non c'è niente di speciale da fare. Osserva la tendenza a voler far succedere qualcosa. Questo può indurre un sacco di pressione sull'ammalato. Tieni solo compagnia e rimani attento. Ho guardato la TV per ore con pazienti, immaginando di non essere di alcun aiuto. Poi, appena mi alzavo per andarmene, la persona a letto mi dice va: "Grazie, è stato carino stare con qualcuno che non mi ha trattato come un malato".
A volte l'apertura accade con una modalità assolutamente inaspettata. C'era un ragazzo all’Hospice, di nome Jackie, eroinomane da 20 anni. Un giorno stavamo seduti nel giardino interno a chiacchierare e siamo rimasti un po' insieme. A un certo punto gli dissi: "Ehi, Jackie, ecco che ti trovi in un Hospice buddhista. Pensi che rinascerai?" Disse: «Non so". "Forse rinascerai, forse ritornerai come mucca" proseguii io e lui mi rispose: "Non voglio ritornare come una dannata mucca". "Allora come cosa vuoi ritornare?" Lui disse: "Jackie" "Perché vuoi tornare come Jackie? Sei già stato Jackie. Perché non provi con qualcos'altro?" “No, tornerò come Jackie" Gli chiesi: "Perché?" "Perché la prossima volta lo farò bene". Vedete, in quel momento siamo entrati in nuovi territori. Jackie si mise a parlare della sua vita e di cosa contava di più per lui. Prestate solo attenzione. Non si sa mai quando questi discorsi possono saltare fuori.
Il terzo modo che abbiamo per esprimere la nostra compassione è prenderci cura dello spirito con il dono della consapevolezza. Nel processo del morire, il sostegno spirituale è altrettanto importante quanto le cure mediche, ma solo raramente lo porgiamo in modo che sia realmente significativo. E dunque molta gente, invece che in pace, muore nello stress e nella paura. Ma possiamo farci qualcosa. Che cos'è il sostegno spirituale? Innanzitutto vuol dire portare testimonianza. Ossia non girarsi dall'altra parte quando le cose diventano difficili, ma restare presenti nel territorio del mistero e delle domande senza risposta. E' aiutare le persone a scoprire la propria verità, anche quando non ci troviamo d'accordo con essa.
Talvolta significa chiamare un prete per somministrare l'estrema unzione o mettere uno scialle di preghiera sulle spalle di una persona morente, oppure potrebbe essere recitare delle preghiere o meditare insieme, ovvero scrivere una lettera che porti alla riconciliazione. Nella mia esperienza, il sostegno spirituale generalmente non prevede discussioni esistenziali o pratiche esoteriche, non riguarda il fuggire da questa vita, bensì l'affrontarla direttamente. Si tratta di essere consapevoli delle opportunità, qui ed ora, di esprimere amore e compassione. Per essere un vero sostegno dobbiamo avere la volontà di uscire dalla nostra personalità ben difesa o dai sistemi di credenze e rinunciare al nostro bisogno di controllo. Allora in questa resa si apre una porta e scopriamo con la persona morente uno spazio che è più grande della nostra vita, ma che la include. Ciò permette di apprezzare meglio la sacralità che sta nelle cose e nelle attività ordinarie. Il nostro paradiso, la nostra illuminazione è qui e ora e noi possiamo aiutare le persone ad assaporare questa esperienza prima di morire.
E’ importante ricordare nell'offrire sostegno spirituale che anche se non c'è alcuna possibilità di cura è sempre possibile guarire. E’ importante capire la distinzione. Guarire ‑ healing ‑ deriva dalla stessa radice di interezza – wholeness. Interezza significa non rotto o danneggiato. Nel guarire c'è la riscoperta della nostra intrinseca interezza. (…)
Fonte: "La rete di Indra buone notizie», anno V, n.3, 2001 - Traduzione di Silvia Lombardi
L'AUTORE
Frank Ostaseski è stato il fondatore, nel 1987, dello Zen Hospice Project e oggi ne è l'insegnante guida. Attraverso il suo insegnamento e i suoi scritti ha introdotto migliaia di persone negli Stati Uniti e in Europa all'esercizio della compassione e della consapevolezza nell'accompagnamento dei morenti. Tiene regolarmente conferenze e ritiri in varie parti del mondo per chi è impegnato in attività di assistenza e per chi sta affrontando malattie gravi. Viene regolarmente in Italia dal 1999. Ha pubblicato "Saper accompagnare. Aiutare gli altri e se stessi ad affrontare la morte", Mondadori.